Addio, Bocca di Rosa

C’è sempre il sole nelle mie giornate tristi. È strano, quando c’è il sole tutti sono felici e allegri. Escono per fare delle belle e sane attività all’aperto. Io ho sempre preferito la pioggia. Quella pesante e liscia che bussa sui vetri delle finestre, ipnotizzandoti mentre scivola via. Il sole invece accieca. Anche quando entra dalla finestra di questa stanza. Il pavimento di coccio scuro sembra quello della prima camera che presi in affitto tanti anni fa.

C’era una stufa nell’angolo: era piccola ma bastava per intiepidire l’ambiente e scaldare l’acqua del tè che offrivo sempre ai miei ospiti. Il letto era piccolo ma soffice. Ricordo che mettevo sempre un po’ di cenere nello scaldino così i miei uomini lo trovavano caldo e l’amore diventava ancora più bello.

Quanti ricordi. C’era Armando, il timido: era docile e coccoloso dopo aver fatto l’amore. Poi Livio che era freddoloso e spesso si tratteneva a dormire alcune ore con me sotto le coperte. Antonio temeva invece di avere una sincope per il troppo caldo. Ho voluto bene a tutti i miei uomini, anche se nessuno di loro mi ha mai veramente amata.

Nessuno di loro mosse un dito quando i Carabinieri mi invitarono a lasciare il paese. Nemmeno il maresciallo Sestini disse niente. Nonostante la sera prima mi avesse promesso che avrebbe fatto di tutto per impedire la mia partenza. Aveva indossato il cappello uscendo dalla camera. Il giorno dopo, quando aprii la porta, se lo tolse e abbassò lo sguardo. Non ho più incrociato i suoi cupi occhi neri.

Mi accompagnarono in stazione. Il treno, l’unico che passava da Sant’Ilario, arrivò con un piccolo ritardo. Tutti erano in silenzio. Anche quelle donne dietro la staccionata. Ci guardammo. Avevano i veli neri in testa, sembrava che fossero ad un funerale. Eppure dovevano essere contente, me ne stavo andando per sempre. Gettai loro un bacio. Si fecero il segno della croce, che ridere.

Il mio mestiere mi ha fatto spostare in molte altre città ma avevo iniziato a lavorare già prima di andarmene di casa: Fiume e il suo bel porto. Lì si impara rapidamente a fare l’amore. I marinai lo consumano rapidamente ma pagano bene. Avevo appena 18 anni e in poche settimane avevo racimolato molto più di quanto mi potesse bastare per partire. Ricordo il giorno in cui decisi di andarmene. Volevo godere a pieno dei piaceri della mia vita ma non volevo gravare sui miei genitori: persone troppo umili per reggere gli sguardi maligni e le voci sul mio conto. Sarebbero morti di crepacuore. Andai via senza salutare nessuno. C’era il sole anche quel giorno.

Genova era bella ma c’era troppo viavai. Tutti consumavano le loro passioni senza goderne a pieno e poi se ne andavano. La provincia era ancor più bigotta mentre nei monti faceva troppo freddo: la neve gela i sentimenti anche degli amanti più focosi. Avevo appena compiuto 30 anni quando sono arrivata a Carrara. Ero sola, come sempre del resto, ma entusiasta nel giungere in quella cittadina. Né troppo grande né troppo piccola ed estremamente operosa: una provincia laboriosa che non dava peso a pettegolezzi, dicerie o altre facezie. Tutte cose che mi sono sempre scivolate addosso ma che, volente o nolente, mi hanno sempre costretto a tenere i bagagli pronti in un angolo dell’armadio.

Carrara era il posto giusto. Ricordo ancora l’emozione di comprare la mia villa fuori dal centro con un bel giardino all’italiana. La finestra della camera dava proprio sull’ingresso e sul paesaggio verde oltre le inferriate. Firmai dal notaio e gli offrì una cena la sera stessa. Divenne poi un cliente piuttosto assiduo, sebbene poco fantasioso.


Anche gli altri non avevano tanto brio: gli bastava la mia passione e, perché no, la mia bellezza. Peccato aver dovuto smettere di lavorare piuttosto presto. Però quei sanguinamenti, prima sporadici, poi sempre più assidui e dolorosi non mi facevano più sentire il piacere dell’amore che davo ai miei uomini. Sparirono le mestruazioni e io, che non avevo ancora 35 anni, decisi di andare in pensione. Non lavorando più persi anche gran parte della mia bellezza. 

«Ma lei è bellissima». Ricordo ancora le parole di Roberto durante la prima visita nel suo ambulatorio. Un ambiente ordinato e pulito. Roberto era arrivato lì da Roma. Non sosteneva più il peso della città, dei suoi giudizi e delle voci sul suo conto. Tentava ogni giorno di nascondere la sua promiscuità che però usciva fuori con fremiti e sguardi languidi ogni qualvolta un uomo gli passava accanto. Roberto era gentile. Forse si era anche un po’ infatuato, glielo leggevo negli occhi. Ma mai la sua natura lo fece avvicinare a me. 

Insieme trascorrevamo piacevoli pomeriggi al sabato e lunghe passeggiate domenicali. Nonostante vedesse giornalmente tanti pazienti, ogni sera si recava in villa per somministrarmi quell’iniezione che mi alleviava i dolori addominali che, di giorno in giorno, erano sempre più forti. Roberto aveva mani morbide e lisce, pulite e piacevolmente calde. Gentili sulla mia pelle come mai altre mani lo erano state prima. 

Viveva da solo mentre io avevo Clara, la mia governante. Ma entrambi, sia Roberto che io, avevamo esistenze profondamente solitarie. Fui molto felice nel sapere che accettava di vivere da me. Ma la gioia durò pochissimo. Due giorni dopo il cavallo che trascinava il suo calesse si imbizzarrì ribaltandolo a terra. Roberto cadde rompendosi l’osso del collo. Ricordo ancora i passi gravi di Clara salire le scale per darmi la notizia. La feci uscire dalla camera e chiusi le tapparelle: tutto fu buio e piansi come mai avevo fatto prima. 



Anche qui c’era buio, ma quella luce nell’angolo lo ha rotto. È entrato qualcuno ma queste non sono come le mani di Roberto: sono fredde e rudi. Il dolore dell’iniezione mi scuote. Chissà chi mi guarda da quelle altre finestre di fronte. Lasciatemi sola coi miei dolori, che c’è sempre il sole fuori.